1. Nel mistero del Verbo incarnato è apparsa a noi la luce nuova dello splendore divino! È stato questo il canto nella festa del Natale. Anche oggi è una festa di luce. Una luce molto più fievole, in verità, perché s'irradia dalle piccole candele che abbiamo portato fra le nostre mani. È una luce che si spegne, la nostra, perché la cera che l'alimenta prima o poi si consuma. Luce precaria, anche perché non sempre sappiamo proteggerla dal soffio del vento e dalle intemperie. E poi, la nostra stessa vita è come un cero che si consuma. «Spegniti, spegniti corta candela! La vita non è che un'ombra in cammino», fa dire Shakespeare a Macbeth (cf. Atto V, scena 5).
Non è così, lo sappiamo. Sì, è una luce debole, la nostra, ma è la lampada con la quale siamo andati incontro al Signore. È la soffusa bellezza di questa festa. Non ha l'emozione dei riti natalizi, ma ha già il chiarore della luce pasquale: la luce di Cristo, che s'irradia da ogni Eucaristia, dove il pane spezzato ci apre al riconoscimento del Signore.
«Andiamo incontro a Cristo nella casa di Dio dove lo troveremo e riconosceremo nello spezzare il pane» (Rito della benedizione delle candele). L'invito liturgico noi lo collochiamo non soltanto entro l'orizzonte della festa odierna, ma anche nel contesto del cammino della nostra Chiesa di Albano, che in questo anno pastorale ha come suo prioritario motivo di studio e di riflessione l'assemblea domenicale. L'incontro col Signore, rinnovato ogni Domenica nella celebrazione dell'Eucaristia, è il punto d'arrivo del processo d'Iniziazione cristiana, del quale abbiamo studiato negli anni appena trascorsi le tappe battesimale e crismale. Chi è rinato dall'acqua ed è stato confermato dallo Spirito ha la veste nuziale per partecipare alle nozze dell'Agnello: una festa che si rinnova ad ogni ottavo giorno, che è «il giorno del riposo, pregustazione e pegno del riposo vero, ultimo, eterno; il giorno che non avrà mai fine, oltre il quale non ci sarà altro giorno: l'ottavo, l'ultimo, il definitivo» (CEI, Nota pastorale Il giorno del Signore [1984], n. 20).
2. In quest'orizzonte consideriamo, miei carissimi, quel che disse Simeone, l'uomo «giusto e pio» che accolse fra le sue braccia il bambino Gesù: «Ora puoi lasciare, o Signore, che il tuo servo vada in pace, secondo la tua parola, perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza». Il senso più ovvio di queste parole è quello che si riferisce alla sua morte. La stessa Liturgia ci ricorda che, prima di morire, il Padre gli ha dato la gioia di stringere tra le braccia il suo Figlio (cf. Preghiera dopo la Comunione). Dice, dunque al Signore: lascia che io muoia in pace. Simeone è come Paolo, che scrive: «è giunto il momento di sciogliere le vele» (2Tim 4,6).
J. B. Bossuet, predicando per la nostra medesima festa collegò anch'egli le parole di Simeone al mistero della morte e aggiunse. «Temiamo di morire, se non abbiamo ancora visto il Signore; se non abbiamo ancora preso fra le braccia né lui, né il suo Vangelo ' Andiamo, dunque, al tempio insieme con Simeone e prendiamo Cristo fra le braccia. E quando avremo fatto questo, saremo come al compimento della nostra vita. Perfino alla morte potremmo dire: tu non turbi miei progetti, ma li completi; tu non interrompi la mia opera, ma le dai l'ultimo tocco» (2° Sermon pour la Fête de la Purification de la Sainte Vierge).