Credibilità come unità di vita

Omelia nella Beatificazione di Rosario Angelo Livatino - Basilica Cattedrale di Agrigento
09-05-2021

«Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi. Rimanete nel mio amore». È con questa consolante certezza che viviamo oggi il nostro incontro. La consapevolezza cristiana di un amore che ci raggiunge da prima della creazione del mondo, perché nasce dal cuore del Padre e mediante il suo Figlio entra nella storia, vince la cattiveria e la morte e ci entra nel cuore come sorgente di vita nuova: «Io ho amato voi. Rimanete nel mio amore: ecco l’origine di tutte le nostre buone opere», esclamava sant’Agostino (In Jo. Ev. tr. 82: PL 35, 1843). Ed è questo il segreto della santità: rimanere nell’amore di Cristo. È un verbo davvero decisivo, questo rimanere. La fecondità della vita cristiana è condizionata da questo rimanere nell’amore di Cristo ed è il frutto di questo rimanere. Qui, però, per un cristiano c’è anche il grave rischio d’essere all’interno di questo abbraccio amoroso del Signore e, ciononostante, di non portare alcun frutto. Si cade, allora, in quel «nominalismo declamatorio con effetto tranquillizzante sulle coscienze», di cui ha scritto papa Francesco (cf. Lettera enciclica Fratelli tutti, n. 188). È una situazione che si fa drammaticamente evidente nei momenti di crisi, nei momenti in cui «essere cristiani» non è più qualcosa di scontato e diventa, anzi, cosa scomoda, schernita, rischiosa, pericolosa.

È l’ottica nella quale noi possiamo guardare anche al martire Rosario Livatino. Nell’amore di Cristo, infatti, egli si è collocato, «come un bimbo svezzato in braccio a sua madre», dice il Salmo (131,2). È il senso ultimo di quel motto S.T.D. che ordinariamente s’intende come Sub Tutela Dei e che il nostro beato inseriva, magari sovrastato dal segno della Croce, in pagine speciali dei suoi scritti. I giusti, scriveva un autore del XII secolo, si collocano sotto la Croce, si pongono, cioè, sub tutela divinae protectionis e così si saziano dei frutti dell’albero della vita (Ugo di Fouilloy, De claustro animae, l. IV, c. 35 PL 176, 1174). È quanto è accaduto al giudice Livatino, il quale è morto perdonando come Gesù ai suoi uccisori. È il valore ultimo delle sue estreme parole, dove sentiamo l’eco del lamento di Dio: «Popolo mio, che cosa ti ho fatto?» (Mi 6,3); è il pianto del giusto, che la liturgia del Venerdì santo pone tradizionalmente sulle labbra del Crocifisso, dove non è un rimprovero e neppure una sentenza di condanna, ma un invito sofferto a riflettere sulle proprie azioni, a ripensare la propria vita, a convertirsi.