Ricorrendo quest’anno il VII centenario della morte di Dante Alighieri non mancano iniziative di vario genere per ricordare e fare conoscere il nostro «sommo poeta», unanimemente riconosciuto come il «padre della lingua italiana». Anche Papa Francesco ha voluto ricordarlo con la Candor lucis aeternae del 25 marzo scorso: una data – scrive Francesco all’inizio della sua lettera apostolica – che «a motivo della sua vicinanza con l’equinozio di primavera e nella prospettiva pasquale, era associata sia alla creazione del mondo sia alla redenzione operata da Cristo sulla croce, inizio della nuova creazione. Essa, pertanto, nella luce del Verbo incarnato, invita a contemplare il disegno d’amore che è il cuore stesso e la fonte ispiratrice dell’opera più celebre del Poeta, la Divina Commedia». Anch’io ho pensato di scrivere questo editoriale ricordando Dante Alighieri, anche per attualizzare con la sua figura e i suoi versi l’augurio pasquale. Il giorno della Pasqua, infatti, nella Divina Commedia è quello del «passaggio» dal regno del peccato a quello del Purgatorio, che prepara all’incontro ultimo e definitivo con Dio. Nel giorno di Pasqua, dunque, secondo a sua cronologia Dante si trova nell’Antipurgatorio e dice: «canterò di quel secondo regno / dove l’umano spirito si purga / e di salire al ciel diventa degno» (Purgatorio, I, 4-6). Pasqua è per Dante davvero il giorno del passaggio, richiamato dall’etimologia del termine, anzi, lo scopo dell’intero poema è proprio «fare pasqua»: un fine che san Paolo VI chiamava «primariamente pratico e trasformante». La Commedia, infatti, non si propone solo di essere «poeticamente bella e moralmente buona, ma in grado di cambiare radicalmente l’uomo e di portarlo dal disordine alla saggezza, dal peccato alla santità, dalla miseria alla felicità, dalla contemplazione terrificante dell’inferno a quella beatificante del paradiso» (Lettera apostolica Altissimi cantus, 7 dicembre 1965). L’augurio, allora, è che ciascuno, come Dante al termine della seconda Cantica, celebri la Pasqua «rifatto sì come piante novelle /rinnovellate di novella fronda, / puro e disposto a salire a le stelle» (XXXIII, 142-145).
Marcello Semeraro