domenica XXV del Tempo Ordinario
In quel tempo, Gesù e i suoi discepoli attraversavano la Galilea, ma egli non voleva che alcuno lo sapesse. Insegnava infatti ai suoi discepoli e diceva loro: «Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà». Essi però non capivano queste parole e avevano timore di interrogarlo. Giunsero a Cafàrnao. Quando fu in casa, chiese loro: «Di che cosa stavate discutendo per la strada?». Ed essi tacevano. Per la strada infatti avevano discusso tra loro chi fosse più grande. Sedutosi, chiamò i Dodici e disse loro: «Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti». E, preso un bambino, lo pose in mezzo a loro e, abbracciandolo, disse loro: «Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato» (Mc 9, 30-37).
Come un bambino
I discepoli fanno proprio una grande fatica a capire chi è Gesù e qual è il contenuto del suo messaggio. Solamente domenica scorsa il Maestro aveva rimproverato Pietro (e con lui tutti gli altri), dandogli del “satana” a motivo della sua contrarietà al piano di Dio, e soprattutto per la sua visione distorta rispetto alla funzione di Messia affidata a Gesù dal Padre. Quel Cristo-Messia politico che tutto Israele (e quindi anche i Dodici) attendeva come liberatore dall’oppressione di Roma, non era esattamente ciò che Gesù era venuto ad annunciare: e dopo aver preso a male parole Pietro per i suoi atteggiamenti avversi, a tutti quanti disse apertamente cosa significava andare dietro a lui, ovvero rinnegare se stessi e seguirlo sulla via della croce. Una via che – lo ribadisce molto chiaramente anche nel brano di Vangelo di oggi – non termina sul Calvario, ma nella tomba vuota della domenica di Pasqua. Eppure, i discepoli continuano a non capire: e francamente, neppure noi capiamo se questa loro mancata comprensione sia frutto di una fatica cognitiva della quale ovviamente non possono essere ritenuti colpevoli (una sorta di innocente ignoranza, potremmo dire), oppure si tratta di una deliberata presa di posizione nei confronti del messaggio di Gesù, fatta di opposizione verso l’immagine di Messia che egli era venuto a portare. Sta di fatto che la lezione di domenica scorsa non l’hanno proprio assimilata, e di fronte alle sue parole, “per timore” non osano nemmeno chiedergli ulteriori spiegazioni, e preferiscono tacere. Poi, però, Gesù è deciso a smascherarli in questo loro atteggiamento cauto e silenzioso, e di fronte alla domanda su quale fossero gli argomenti dei loro dialoghi lungo il cammino, il silenzio si fa tombale, assoluto: e la spiegazione di Marco ci fa comprendere molto bene che dietro a quel silenzio non c’era un’innocente ignoranza, ma una deliberata scelta di contrarietà al messaggio messianico di Gesù. A loro, in definitiva, non stava bene un Messia disposto a lasciarsi mettere in croce: l’occasione per fare di Gesù il loro leader, ora che la marcia su Gerusalemme era stata intrapresa, era troppo ghiotta per lasciarsela sfuggire. In qualche modo, speravano forse di riuscire a convincere Gesù della bontà della rivoluzione politica: e nel frattempo, si stavano già preparando a spartirsi le poltrone, discutendo su chi di loro, nel Regno da ricostruire, sarebbe stato ai vertici, sarebbe stato da considerare “il più grande”. Non hanno proprio capito nulla; non hanno imparato la lezione neppure dopo che il loro “coordinatore” era stato definito dal Maestro “satana”, avversario. Non c’è niente da fare: quando si hanno in testa certi schemi mentali, e si è convinti che siano perfetti, non c’è verso di cambiare, nemmeno se hai a che fare con il Figlio di Dio e con il Padreterno in persona. La “durezza di cuore e di testa” descritta a più riprese nell’Antico Testamento è presente anche tra i discepoli di Gesù: e non pensiamo di esserne scevri neppure noi, cristiani di oggi! Siamo molto spesso preda di una chiusura mentale nei confronti delle cose di Dio e della vita di fede in confronto alla quale la “testa dura” dei discepoli era davvero poca cosa, anche perché aveva il beneficio dell’ignoranza sulla figura di Gesù. Noi, dopo più di duemila anni di cristianesimo, non possiamo dire di non sapere nulla di Gesù e di non aver capito che il suo messaggio è un messaggio universale di salvezza basato sull’amore, sulla misericordia e sul servizio: eppure, siamo ancora presi da giochi di potere, da privilegi da mantenere, da corsie preferenziali attraverso le quali come chiesa dobbiamo passare rispetto a tutti gli altri, da cose da mantenere legate alla tradizione e guai a chi cerca di cambiarle, e via di seguito… Come può riuscire Gesù a farci capire qualcosa del suo messaggio, se il nostro modo di essere cristiani non cambia neppure prendendoci con le dure e dicendoci – come a Pietro – che siamo suoi avversari perché ragioniamo da uomini e non con i suoi criteri? Gesù oggi prova un’altra strategia: non più quella del rimprovero, ma ancora una volta quella della pazienza e della persuasione. Torna a ripeterci che non è nella posizione di comando, nel mantenimento del potere e nella conservazione dei privilegi che facciamo del cristianesimo una religione incarnata nel mondo contemporaneo e attenta alle necessità dell’umanità, bensì nella dimensione del servizio umile e silenzioso; un servizio fatto di poche pretese, di poche rivendicazioni, di poche parole, di maniche rimboccate e di attenzione ai bisogni dell’altro, ma soprattutto di un atteggiamento di fondo, quello della semplicità e della disponibilità. E per esortarci ad assimilare questo modello e a farne la caratteristica fondamentale di uno stile di servizio, ci mostra un esempio: quello dei bambini. “Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me”: ovvero, chi accoglie nel proprio cuore la vita (e anche la vita di fede) come la accoglie un bambino, non può che accogliere dentro di sé la dimensione dell’umiltà, della generosità, della semplicità e quindi del servizio.
Un bambino, infatti, non fa distinzioni tra le persone, e soprattutto ha un solo gradino nella sua scala sociale: quello dei “grandi”, perché gli altri bambini, anche quelli più piccoli, sono come lui, non gli sono inferiori, sono semplicemente “bambini”. Un bambino accoglie la novità di un gioco o di un esercizio nuovo con la gioia di chi, nelle cose nuove, trova vita, e non timore dell’incerto; un bambino di fronte alla vita gioca perché sa che la vita va giocata, che bisogna prendersi gioco della vita, e che una vita presa troppo sul serio ti schiaccia; un bambino si fida senza troppe domande di chiunque giochi con lui, perché sa che chi è capace di giocare con un bambino è ancora capace di meravigliarsi, di sognare e di ridere della vita. Un bambino, mentre tutti fingono di dire al re – pur di non contraddirlo – che i suoi vestiti inesistenti sono bellissimi, è capace di dire – ce lo insegna la fiaba di Andersen – “Ma il re è nudo!”, e se il re continua nella sua inesorabile marcia trionfale senza vestiti perché deve mantenere il gioco della parte, il bambino continuerà a prendersi gioco di lui, perché ha capito meglio degli altri che il Regno è molto di più della suggestione del potere e del dominio. Vogliamo vivere nell’ignorante innocenza di non capire fino in fondo il Maestro? Scegliamo l’innocenza sincera del bambino che si fida di suo Padre (perché Dio è Padre), e non la falsa umiltà di chi si finge ignorante per poter fare di Dio quello che vuole.
p style=“text-align: right;”A cura di Don Brignoli Alberto