martedì della XIX settimana del tempo ordinario
Mt 18, 1-5.10.12-14
In quel momento i discepoli si avvicinarono a Gesù dicendo: «Chi dunque è più grande nel regno dei cieli?». Allora chiamò a sé un bambino, lo pose in mezzo a loro e disse: «In verità io vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli. Perciò chiunque si farà piccolo come questo bambino, costui è il più grande nel regno dei cieli. E chi accoglierà un solo bambino come questo nel mio nome, accoglie me. Guardate di non disprezzare uno solo di questi piccoli, perché io vi dico che i loro angeli nei cieli vedono sempre la faccia del Padre mio che è nei cieli. Che cosa vi pare? Se un uomo ha cento pecore e una di loro si smarrisce, non lascerà le novantanove sui monti e andrà a cercare quella che si è smarrita? In verità io vi dico: se riesce a trovarla, si rallegrerà per quella più che per le novantanove che non si erano smarrite. Così è volontà del Padre vostro che è nei cieli, che neanche uno di questi piccoli si perda» (Mt 18, 1-5.10.12-14).
Farsi piccoli come un bambino. È ciò che chiede il Signore ai propri discepoli, a noi. Farsi piccoli in un mondo in cui tutti sgomitano e urlano, in cui ci si scazzotta per un titolo, per un riconoscimento, per un briciolo di visibilità. A volte, purtroppo, come ben segnalato da papa Francesco, anche nella Chiesa. Farsi piccoli. Non significa giocare a fare i falsi umili, o, peggio, a dare la stura alla nostra vena autolesionista e depressa. Ma ragionare col cuore di un bambino che lascia emergere la propria parte pura e limpida, quella che si affida, che attende, che crede. Farsi piccoli richiede uno sforzo, non ci viene naturale, affatto. Richiede partecipazione e convinzione, ponendo la presenza di Dio in cima ai nostri pensieri, dopo le nostre legittime ambizioni. Farsi piccoli: ci basta sapere di essere preziosi agli occhi di Dio, di essere unici nel suo sguardo, amati come quella pecora imbranata che si perde nei pascoli della vita. E riconoscere nell’abbraccio forte del pastore che ci è venuto a cercare l’abbraccio di Dio. Farsi piccoli per farsi portare in spalla, per essere presi in braccio. Davvero vogliamo qualcosa di diverso?
lunedì della XIX settimana del tempo ordinario
In quel tempo, mentre si trovavano insieme in Galilea, Gesù disse ai suoi discepoli: «Il Figlio dell’uomo sta per essere consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno, ma il terzo giorno risorgerà». Ed essi furono molto rattristati. Quando furono giunti a Cafàrnao, quelli che riscuotevano la tassa per il tempio si avvicinarono a Pietro e gli dissero: «Il vostro maestro non paga la tassa?». Rispose: «Sì». Mentre entrava in casa, Gesù lo prevenne dicendo: «Che cosa ti pare, Simone? I re della terra da chi riscuotono le tasse e i tributi? Dai propri figli o dagli estranei?». Rispose: «Dagli estranei». E Gesù replicò: «Quindi i figli sono liberi. Ma, per evitare di scandalizzarli, va’ al mare, getta l’amo e prendi il primo pesce che viene su, aprigli la bocca e vi troverai una moneta d’argento. Prendila e consegnala loro per me e per te» (Mt 17, 22-27).
Per la seconda volta, Gesù parla apertamente della sua passione: “Il Figlio dell’uomo sta per essere consegnato nelle mani degli uomini”. Non si dice da chi, ma il verbo consegnare è al cosiddetto “passivo divino”, esprime cioè un’azione di Dio. Dio dà il suo Messia, lo “consegna”, lo abbandona all’impotenza senza intervenire per liberarlo. Questo è un modo di agire di Dio che facciamo molta fatica ad accettare. Ci dà tanta tristezza ed è così contrario… al buon senso! Era così anche per i discepoli, i quali “furono grandemente contristati”: non avevano ancora capito. Nella seconda parte Gesù dichiara la sovrana libertà, sua come Figlio e di coloro che lui ha resi figli, di fronte alle piccole cose di questo mondo, nel caso, il tributo per il Tempio che ogni israelita giunto ai venti anni doveva pagare. Ma Gesù dimostra la sua superiorità anche mediante la sua condiscendenza nel pagare il tributo; ma non lo paga come un uomo qualsiasi soggetto a questo dovere: lo fa a motivo della debolezza degli esattori (“perché non restino scandalizzati”) e per di più in modo miracoloso. I discepoli “non avevano ancora capito” che Gesù, il Messia doveva “soffrire”. Io ho chiaro il significato della sofferenza nella mia vita? Quando soffro, rimango sereno o precipito in una cupa depressione?
p style=“text-align: right;”A cura di Curtaz Paolo