Sabato santo
«Non è qui, è risuscitato» (Lc 24, 6)
Il Vangelo della risurrezione di Gesù Cristo incomincia con il cammino delle donne verso il sepolcro, all’alba del giorno dopo il sabato. Esse vanno alla tomba, per onorare il corpo del Signore, ma la trovano aperta e vuota. Dopo la morte del Maestro, i discepoli si erano dispersi; la loro fede si era infranta, tutto sembrava finito, crollate le certezze, spente le speranze. Ma ora, quell’annuncio delle donne, benché incredibile, giungeva come un raggio di luce nel buio. La notizia si sparge: Gesù è risorto, come aveva predetto…Rileggere tutto – la predicazione, i miracoli, la nuova comunità, gli entusiasmi e le defezioni, fino al tradimento – rileggere tutto a partire dalla fine, che è un nuovo inizio, da questo supremo atto d’amore. Anche per ognuno di noi c’è una “Galilea” all’origine del cammino con Gesù. “Andare in Galilea” significa qualcosa di bello, significa per noi riscoprire il nostro Battesimo come sorgente viva, attingere energia nuova alla radice della nostra fede e della nostra esperienza cristiana. Tornare in Galilea significa anzitutto tornare lì, a quel punto incandescente in cui la Grazia di Dio mi ha toccato all’inizio del cammino. È da quella scintilla che posso accendere il fuoco per l’oggi, per ogni giorno, e portare calore e luce ai miei fratelli e alle mie sorelle. Da quella scintilla si accende una gioia umile, una gioia che non offende il dolore e la disperazione, una gioia buona e mite (Omelia, 19 aprile 2014).
Ci siamo accorti che non basta essere i custodi del verbo di pace, e neanche uomini di pace nel nostro in¬timo, se lasciamo che altri – a loro modo e fosse pure solo a parole – ne siano i soli testimoni davanti alla povera gente, la quale ha fame di pace come ha fame di giustizia.
Certi nostri silenzi, che sembrano dettati dalla pru¬denza, possono diventare pietra d’inciampo.Qui non si tratta di accorgimenti o di concorrenza- parole che non dovrebbero aver credito in terra cri¬stiana – ma del dovere di dire e fare, a tempo giusto e nel modo giusto, ciò che un cristiano deve dire e fare per rendere visibile la verità e per impedire che i sem¬plici siano tratti in inganno e siano messi alla prova anche gli eletti.« Perché appariranno qui e là falsi cristi e falsi pro¬feti, capaci di segni e prodigi da sedurre, se fosse pos¬sibile, anche gli eletti» (Matteo 24,24).
Certi movimenti per la pace non si svuotano ironiz¬zandone i riti o dileggiandone le iniziative; ma operan¬do noi concretamente, prima e meglio di ognuno, se¬condo il nostro stile e la nostra tradizione, la cui ric¬chezza di verità e di stimoli è tanto varia e originale da prestarsi ai più impensabili plagi perfino dal cam¬po comunista.Conviene lasciare ai politici di presuntuoso intellet¬to l’ironia o il dileggio. Su labbra cristiane, l’ironia e il dileggio, oltre che manchevoli di carità, potrebbero parere un tentativo di coprire la nostra accidia odi giu¬stificare la nostra arrendevolezza alle ragioni del «bloc¬co» che tenta di annetterci.Noi non ci sentiamo di condannare né di rifiutare nes¬sun onesto e sincero tentativo in favore della pace: vo¬gliamo soltanto ricordare a noi stessi che, come cristia¬ni, dovremmo essere davanti nello sforzo comune ver¬so la pace. Davanti per vocazione, non per paura. Quan¬do fa buio, la lampada non la si mette sotto la tavola.Le manifestazioni per la pace non sono conclusive, ma non sono nemmeno inutili. L’epifania è sempre una festa cristiana, che viene in qualche modo continuata anche manifestando per la pace e richiamando intor¬no a questo problema, che è «il problema del nostro tempo» (Card. Feltin), l’attesa e la sofferenza della po¬vera gente (don Primo Mazzolari).