Sant’Atanasio vescovo e dottore della Chiesa
«Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono» (Gv 10, 27)
Tutti pensiamo al pastore che va in cerca della pecora che si è persa e che la riporta caricandosela sulle spalle. Ma il pastore di Giovanni, quello di cui si parla nel vangelo di oggi, assume altre caratteristiche: è duro e determinato e lotta strenuamente per difendere il gregge dai lupi e dai mercenari. Un pastore che veglia, che lotta, disposto a dare la propria vita per la salvezza del gregge, diversamente da come fanno i pastori per professione. Gesù ci sta dicendo che siamo nelle sue mani, in mani sicure, che nessuno ci strapperà mai dal suo abbraccio, che solo in lui riceviamo la vita dell’Eterno. Ma per seguirlo occorre ascoltarlo e riconoscere la sua voce, cioè frequentare la sua Parola, meditarla assiduamente. Ci conosce, il Maestro. Conosce il nostro limite, la nostra fatica, ma anche la nostra costanza e la gioia che abbiamo nell’amarlo. E Gesù, oggi, ci esorta: niente ti strapperà dal mio abbraccio. Non il dolore, non la malattia, non la morte, non l’odio, non la fragilità, non il peccato, non l’indifferenza, non la contraddizione di esistere. Nulla. Nulla ci può rapire, strappare, togliere da Lui. Siamo di Cristo, ci ha pagati a caro prezzo. Siamo di Cristo (Curtaz Paolo).
«Perciò, o figli, non ci scoraggiamo, non crediamo di durare a lungo o di fare qualcosa di grande: “Le sofferenze del momento presente non sono paragonabili alla gloria futura che dovrà essere rivelata in noi” (Rm 8,18). Né guardando l’universo dobbiamo credere di aver rinunciato a grandi cose; tutta la terra, paragonata a tutto il cielo, è piccolissima. Se noi fossimo padroni di tutta la terra e rinunciassimo ad essa, nulla di quello a cui abbiamo rinunciato sarebbe degno del regno dei cieli. Come uno disprezza una dracma di bronzo per guadagnare cento dracme d’oro, così chi è padrone di tutta la terra e rinuncia ad essa, perde poco ma fa un guadagno cento volte maggiore. Se tutta la terra non è dega del regno dei cieli, chi perde poche arure, non perde quasi niente; se poi lascia la casa e molto oro, non deve vantarsi né scoraggiarsi. Dobbiamo anche tener presente che se non lasciamo le nostre cose in nome della virtù, le lasceremo in seguito quando moriremo e spesso a persone alle quali non vorremmo lasciarle, come ricorda l’Ecclesiaste (Qo 4,8). “Perché, dunque, non lasciarle in nome della virtù per ereditare il regno dei cieli? Per questo nessuno di noi si lasci prendere dalla cupidigia di possedere. Che guadagno c’è a possedere cose che non possiamo portarci con noi? Perché non ci preoccupiamo di acquistare cose che possiamo portar via con noi come la prudenza, la giustizia, il coraggio, l’intelletto, la carità, l’amore verso i poveri, la fede in Cristo, la mansuetudine, l’ospitalità? Se acquisteremo queste cose, le troveremo là dove ci accoglieranno come ospiti nella terra dei miti» (Atanasio, Vita di Antonio, 17).
A cura di don Gian Franco Poli